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L’ANNO CHE A ROMA FU DUE VOLTE NATALE

Ex Libris Sara Boero

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I temi della casa e dei rapporti famigliari, forse complice il periodo involontariamente “domestico” appena vissuto, sono i fili rossi dei romanzi proposti in questa edizione del Premio Strega. “L’anno che a Roma fu due volte Natale” di Roberto Venturini spicca per il taglio decisamente sopra le righe con cui questi temi vengono declinati: per la freschezza, l’originalità e la forza della rappresentazione è il mio libro preferito tra i dodici finalisti.

La “casa” è quella di Alfreda, vedova, accumulatrice seriale di Torvaianica, che (memore degli anni d’oro del jet-set in cui la zona era un’esclusiva meta turistica frequentata da Tognazzi e le altre star del cinema italiano) nei suoi sogni tormentati vede lo spirito di Sandra Mondaini.

La sua “famiglia” è il figlio Marco, appassionato cultore di cannabinoidi che vive al piano di sopra. Su di loro incombe lo spettro di un’ispezione dell’ufficio igiene: il villino versa in condizioni di degrado tali da renderli passibili di sfratto. Alfreda acconsente a sgomberare la casa delle cianfrusaglie accumulate in seguito alla morte tragica del marito, scomparso in mare durante una pesca notturna, ma solo a condizione che il figlio la aiuti ad esaudire il desiderio della sua tormentata “Sandra Mondaini”: essere ricongiunta all’amato Raimondo. Nella mente inquieta di Alfreda, lo spirito della Mondaini non trova pace perché Raimondo riposa nel Lazio, lei al cimitero di Lambrate: Alfreda chiede dunque al figlio di trafugare la salma di Vianello e trasportarla in Lombardia, per riunire l’amatissima coppia storica della televisione italiana.

Nell’atmosfera onirica che sembra avvolgere la località costiera laziale, popolata dai fantasmi di personalità del cinema e della televisione, Marco acconsente a mettere in atto il proposito della madre e sceglie due alleati singolari: il fedele amico Carlo, anziano pescatore vittima dei sensi di colpa per la scomparsa del padre di Marco, ed Er Donna, popolarissima prostituta transessuale. L’improbabile trio, durante la sortita notturna al cimitero, si ritroverà però invischiato in una “crime story” parallela, scontrandosi involontariamente con una cellula della criminalità organizzata locale e dando il via a una catena di eventi irreali e tragici.

“L’anno che a Roma fu due volte Natale” è un romanzo sospeso tra l’eco neorealista e la modernità del cinema italiano più graffiante e contemporaneo, la commedia grottesca alla “Brutti e Cattivi” (presentato nel 2017 al Festival del Cinema di Venezia). Viene spontaneo nel corso della lettura cercare, tra i personaggi, una parte per Claudio Santamaria, e nello stile agile, moderno e vicino al parlato si respira un autentico amore per la sceneggiatura - terreno familiare a Roberto Venturini.

Una storia disperata, coraggiosa, resa memorabile dall’ambientazione connotata e precisa: il romanzo è ricco di gustosi aneddoti sugli anni d’oro di Torvaianica, su Villaggio Tognazzi, sullo storico torneo di tennis “Lo scolapasta d’oro”. Ma soprattutto, una storia con quattro protagonisti iconici, indimenticabili nel loro essere al tempo stesso rappresentazioni verosimili e maschere tragiche.

E così, tra la statale e la spiaggia, l’assurda e insensata profanazione della tomba di Vianello si trasfigura in un atto d’amore, i tre “giustizieri” del cimitero vivono un’esperienza al limite dello spaghetti western, e Alfreda, nella sua statica disperazione, riesce a incarnare e raccontare il topos del punto di contatto tra sonno e veglia, tra morte e vita, nel tentativo di elaborare con un transfert il dolore insanabile e profondo del suo stesso lutto.

“L’anno che a Roma fu due volte Natale” non è il più maturo e compiuto dei dodici romanzi proposti quest’anno, ma è forse l’unico a possedere quella scintilla di bellezza e follia che fa la differenza tra un ottimo libro e un libro di cui è possibile innamorarsi.

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